...da tanto questo blog è stato "fermo"...ho vissuto a pizza e piatti pronti in questi lunghi e faricosi mesi...avevo altre priorità....dovevo vivere la vita anche se era dolorissima Dovevo esserci.
Mio adorato nonno,
quando un anno fa ti portai al pronto soccorso per un rapido controllo al cuore, che pareva non farti stare bene, venni a casa sollevata del fatto che esso era perfettamente in salute e che avremmo dovuto soltanto, con tutta calma, fare un tac per vedere meglio quell’ombra sul polmone. Nonostante il tempo che non abbiamo perduto in quel frangente, nella nostra ignoranza più assoluta di quel che stavamo indagando, la risposta che emerse e che individuai da sola nei corridoi dell’Ospedale di Cona, mi preoccupò e non poco. Solo qualche mese prima eravamo stati lì con la nonna, vagando di dottore in dottore per cercare una soluzione ai suoi problemi fastidiosi ma non gravi e ricordo di aver visto diverse persone uscire dai reparti di oncologia con la testa fasciata per nascondere la perdita dei capelli. “Per fortuna siamo in altri reparti” ho pensato, quasi sentendomi in colpa per la stupida ed infelice constatazione da me fatta. Ma purtroppo è onestamente in questo modo che ho ragionato anche quello stesso giorno, quando in pneumologia ti fecero la broncoscopia per accertare meglio. Mi sentivo lontana da ogni imminente pericolo. Mi sentivo sulle spine ma sollevata per stare indagando un qualcosa che si vedeva appena, che avremmo scovato e curato, affidandoci alla competenza dei medici.
Tornammo a casa con l’indicazione di farti bere e mangiare poco alla volta, dal tardo pomeriggio, ma forse tu prendesti troppo alla lettera il consiglio e bevesti davvero poco dal momento che, il giorno seguente, hai avuto davanti ai miei occhi sconcertati una sincope dovuta, dissero i sanitari, alla tua scarsa idratazione. La notte precedente avevi avuto un po' di febbre, l’anestesia da smaltire…io quella notte sognai Don Marcello e credo con tutta me stessa che fu quel segno a farmi essere lì quando ciò avvenne, per poter in tutta fretta chiamare l’automedica.
Quel giorno ho creduto tu mi stessi lasciando. Combattuta tra il panico e il sangue freddo di fare il possibile per tenerti in vita, sollevata non appena vidi i tuoi occhi riaprirsi e i tuoi muscoli rilassarsi, la prima cosa che feci fu sfogare il mio pianto abbracciandoti e supplicandoti: “non lasciarmi, nonno, non lasciarmi. Non lasciarmi adesso”. Tu mi rispondesti con un filo di voce: “Non ti lascio Francesca. Non voglio morire. So che hai bisogno di me”. Da quel ricovero in ospedale non sei più stato lo stesso. Qualche allucinazione, qualche momento di confusione, la graduale perdita della memoria: tutti segni che, da una prima incredulità e preoccupazione nei tuoi confronti, imparai ad accettare come segnale di una malattia di cui non potevo parlare con nessuno e che gli altri, senza sapere, etichettavano come demenza senile.
Nel frattempo giungevano, tuttavia, gli esiti degli esami da te fatti, che io ti tenevo nascosti, e giunse faticosamente anche il giorno in cui le dottoresse che li avevano prescritti vollero incontrarci. Io mi feci fare da te la delega perché eri appena stato dimesso e non volevo ascoltassi nulla di ciò che mi sentivo essere un brutto presagio. Mi accompagnò mio marito. Ci venne mostrata qualche slides della tua tac positiva, ci venne detto che avevi un carcinoma inoperabile, al 4 stadio, l’ultimo, gravissimo. Così, come se ci stessero dicendo che fuori era Autunno e avrebbe fatto presto freddo.
Una doccia gelata ibernò ogni mio più piccolo pensiero logico. Parlavano davvero di te? Come si permettevano di farlo in quel modo? Era questo che volevano dirti in faccia, insistendo fino all’ultimo che tu potessi venire per ascoltare? Come si può dire una cosa simile ad un uomo anziano che ha tanto sofferto solo perché è cosciente? Ma cosa significa quarto stadio, inoperabile, come poteva essere vero se tu eri perfettamente in salute e in grado di fare ogni cosa: guidare, cucinare, amministrare le tue cose, suonare, insegnare musica ed essere il nostro pilastro da sempre? Scoppiai a piangere come una fontana, per la rabbia di sentirmi in una trappola, in un inganno meschino, un brutto scherzo. E se avessero confuso le carte? Ma le cure? Era un’ombra, avevano detto, una piccola ombra. Come poteva essere lì da tempo quell’ombra senza che io me ne fossi mai accorta? Tanti rimorsi mi attraversarono il cuore come coltelli affilati, in particolar modo la sensazione di colpevolezza per non essermi mai accorta di nulla, pur dividendo con te gran parte di tutte le mie frenetiche ma felici giornate. Ora, quell’ombra si insinuava tra noi, ed era molto, molto più minacciosa di quello che fino a quel giorno avevo creduto.
Ovviamente iniziai ad indagare, a studiare, a mettere in discussione e a prenotare colloqui e consulenze, sperando di sentirmi dire qualcosa di differente. La parola “tumore”, che nella mia vita avevo quasi timore anche solo di concepire nella mente e pronunciare, diveniva inspiegabilmente familiare e mi risucchiava in un vortice che mi terrorrizzava. Mi ritrovavo dall’altra parte, lì gettata violentemente e improvvisamente da uno tsunami che non avevo minimante avvertito. Per un’altra volta nella mia vita, ma questa con ancora più consapevolezza vista la mia età adulta, sentivo che le parole chemioterapia, radioterapia, metastasi, cure palliative….avrebbero dovuto riguardarci, anche se non riuscivo ad accettarlo. Tu stavi bene, come potevano parlarmi così, come osavano?
Ho pianto tanto, nonno. Ho pianto e piango ancora, mentre scrivo questa lettera come un fiume in piena che ho necessità urgente di far sgorgare dal mio cuore.
Ho cercato e trovato conforto nella preghiera e sono stata ascoltata. Ho chiesto di poterti avere con me in salute ancora, da quell’Autunno, per festeggiare con te il Natale, il mio compleanno e quello di mio figlio, la sua S. Comunione, la fine delle scuole elementari permia figlia e il suo compleanno, e ogni momento che ci è stato ancora possibile.
Ad ogni medico che ho incontrato sul percorso, ho espresso la mia indiscussa volontà di non aggredirti con le cure. “Quanto ne potremmo guadagnare?” “Qualche mese” “Ma lei cosa farebbe se fosse suo padre?” “Se dovessi fare solo il medico le direi che dovremmo affrontare le cure, ma siccome un medico deve essere anche un uomo e guardare alla totalità della persona e non solo alla malattia penso che, in questo caso, davanti a un uomo di quasi 90 anni con comorbidità, la qualità della vita diventi più importante della quantità… e allora sì, se fosse mio padre, lo lascerei in pace.” - mi è stato risposto dai sanitari più empatici che ho incontrato.
Non ho dormito per mesi. La tenaglia del dubbio mi stringeva in una morsa che non mi dava tregua. Poi, dopo tantissimi confronti, tantissimi pianti, tantissime preghiere… ho capito quale era la strada da percorrere: non metterti paura, ansia, non farti soffrire ulteriormente per qualcosa che non ti avrebbe riservato un finale differente. E’ stato crudele tenermi questo orribile segreto dentro e decidere per te…Mi sono chiesta tante volte se avresti preferito saperlo, avere la possibilità di lottare, io sicuramente mi sarei sentita più leggera, anche se avevo il terrore della sofferenza che avremmo dovuto affrontare….Ma sapendo che era una lotta impari, che avremmo comunque perso, ho voluto risparmiarti il terrore che io stavo provando e il dolore che la consapevolezza di lasciare me, mio fratello, la nonna e i bambini ti avrebbe procurato.
Tu, che hai sempre pensato a tutto per noi. Tu, che non mi hai fatto mancare nulla. Tu, che mi hai dato sempre più di quanto avremmo potuto permetterci. Tu che mi hai sempre donato soprattutto affetti e valori, ma anche ciò che di materiale ti chiedevo. Tu che non mi hai mai rinfacciato nulla. Tu che non mi hai mai fatto pesare nulla. Tu che in 86 anni non mi hai mai detto una volta: non sto bene, aiutami. Tu che non mi hai mai chiesto niente, nemmeno di andarti a comprare una cassa d’acqua al supermercato. Tu che ti sei sempre arrangiato, che non mi hai mai mostrato un segno di cedimento, nemmeno quando hai perso una figlia e ti sei trovato a crescere un’adolescente furiosa e delusa dalla vita e da tutto. Tu che mi hai sempre dato fiducia. Tu che mi hai sempre dato una possibilità. Tu che mi hai sempre concesso la libertà. Tu che mi hai sempre perdonato. Tu che non hai mai alzato la voce con me, ma che sei stato un esempio impeccabile di autorevolezza con il tuo tono pacato e garbato. Tu che non hai mai usato una parola cattiva, ma che sei stato l’esempio più grande di gentilezza e nobiltà che io abbia mai avuto. Tu che sei sempre stato corretto e che mi hai insegnato quanto sia importante l’onestà, soprattutto intellettuale. Tu che ci sei sempre stato. Tu che non mi hai mai dato un consiglio se non ti era richiesto. Tu che ti si sempre fatto da parte, senza farlo apparire come un sacrificio. Tu che mi hai lasciato spiccare il volo e hai sostenuto tutto il peso sulle tue spalle curve. Tu, che sei stato il mio primo confidente, al quale ho detto tutto, senza mai essere giudicata. Come potevo non dirti questo? Come potevo tradirti in qualche modo, mentirti, non metterti al corrente di una cosa così tanto importante per la tua vita?
Perdonami nonno, se ho sbagliato. E’ stato il mio più grande atto d’amore per te. Tenermi questo macigno dentro, lasciare che mi affondasse ogni giorno di più insieme a te, essere divorata dalla paura e dai rimorsi, ma anche rincuorata del fatto che le mie preghiere erano state ascoltate.
Per un anno hai continuato ad essere una persona apparentemente in salute, e nessuno poteva credere alle mie fatiche e al mio dolore pungente. Solo ultimamente si poteva percepire che qualcosa ti stava divorando lentamente: eri magrissimo, stanco, a volte non lucido.
Non è stato facile limitare la tua libertà in questi mesi: i giri dal dottore, in farmacia, fino alla spesa, togliendoti la macchina, le scale…Mi sono fatta in 4, insieme a mio fratello, per non farvi mancare nulla: una casa pulita, i tuoi piatti preferiti a pranzo e cena, le medicine, il riposo che meritate ma soprattutto la nostra presenza e il nostro affetto. Quando non ero con te, stavo pensando a te, pregando per te, piangendo per te. E per me. Per noi due. Che siamo un’entità sola, quasi, come una figlia e un padre, una figlia e una madre, perché questo sei stato per me, perché tu sei parte di lei, e io non ci sarei senza te, senza la tua sofferenza, non sarei quella che sono se mi avesse cresciuto qualcun altro. In questi ultimi mesi, prigioniero nella tua casa, ti ho trovato qualche volta insofferente, forse anche arrabbiato con me, nascosto in un angolo a piangere.
Ho pensato ininterrottamente a quanto questa malattia sia subdola e malvagia: la scopri che sei già fuori tempo massimo, ti trovi faccia a faccia con la consapevolezza che la clessidra è stata già girata e puoi solo guardare i granelli scendere e decidere cosa fare in questo tempo. La malattia cambia le priorità del cuore, sovverte i ritmi della mente, fa chiaramente comprendere che nulla è controllabile da noi se non la possibilità di godere di ogni cosa, di dimostrare l'amore a chi vogliamo e di essere grati per ciò che abbiamo ricevuto. Ma ci fa anche impazzire. Io lo so che avevi voglia di vivere e mi sembrava così ingiusto che questo male ti dovesse portare via da me. Cercando di allontanare questi pensieri, ti ho abbracciato fino a stritolarti, ti ho coccolato e seguito come avrebbe fatto una madre con un figlio, e a volte ho dovuto recitare la parte di quella che prende delle decisioni a te sgradite. Mi sono chiesta sempre, 1000 volte e più, se stavo facendo bene, se stavo facendo il “meglio”. Spesso non sono riuscita a dormire poiché questi pensieri mi attanagliavano, ma di giorno cercavo sempre di farmi tornare il sorriso, di farti capire con i miei baci e i miei abbracci quanto sei importante per me e per i bambini. Non sarà mai abbastanza per ripagarti, ma io ho scelto di esserci, molto prima che tu ti ammalassi. Ringrazio Dio per questo tempo insieme, tutto, quello prima della malattia, così spensierato e dolce, soprattutto da quando sei diventato bisnonno…e quello che abbiamo avuto adesso, per dirci tutto, per ringraziarci di tutto, per quando mi dici che, anche da lontano, ci sarai sempre per me. Tra noi non ci sono rimpianti, abbiamo capito troppo presto cosa significa perdere chi amiamo e a dare importanza alla vita.
quando un anno fa ti portai al pronto soccorso per un rapido controllo al cuore, che pareva non farti stare bene, venni a casa sollevata del fatto che esso era perfettamente in salute e che avremmo dovuto soltanto, con tutta calma, fare un tac per vedere meglio quell’ombra sul polmone. Nonostante il tempo che non abbiamo perduto in quel frangente, nella nostra ignoranza più assoluta di quel che stavamo indagando, la risposta che emerse e che individuai da sola nei corridoi dell’Ospedale di Cona, mi preoccupò e non poco. Solo qualche mese prima eravamo stati lì con la nonna, vagando di dottore in dottore per cercare una soluzione ai suoi problemi fastidiosi ma non gravi e ricordo di aver visto diverse persone uscire dai reparti di oncologia con la testa fasciata per nascondere la perdita dei capelli. “Per fortuna siamo in altri reparti” ho pensato, quasi sentendomi in colpa per la stupida ed infelice constatazione da me fatta. Ma purtroppo è onestamente in questo modo che ho ragionato anche quello stesso giorno, quando in pneumologia ti fecero la broncoscopia per accertare meglio. Mi sentivo lontana da ogni imminente pericolo. Mi sentivo sulle spine ma sollevata per stare indagando un qualcosa che si vedeva appena, che avremmo scovato e curato, affidandoci alla competenza dei medici.
Tornammo a casa con l’indicazione di farti bere e mangiare poco alla volta, dal tardo pomeriggio, ma forse tu prendesti troppo alla lettera il consiglio e bevesti davvero poco dal momento che, il giorno seguente, hai avuto davanti ai miei occhi sconcertati una sincope dovuta, dissero i sanitari, alla tua scarsa idratazione. La notte precedente avevi avuto un po' di febbre, l’anestesia da smaltire…io quella notte sognai Don Marcello e credo con tutta me stessa che fu quel segno a farmi essere lì quando ciò avvenne, per poter in tutta fretta chiamare l’automedica.
Quel giorno ho creduto tu mi stessi lasciando. Combattuta tra il panico e il sangue freddo di fare il possibile per tenerti in vita, sollevata non appena vidi i tuoi occhi riaprirsi e i tuoi muscoli rilassarsi, la prima cosa che feci fu sfogare il mio pianto abbracciandoti e supplicandoti: “non lasciarmi, nonno, non lasciarmi. Non lasciarmi adesso”. Tu mi rispondesti con un filo di voce: “Non ti lascio Francesca. Non voglio morire. So che hai bisogno di me”. Da quel ricovero in ospedale non sei più stato lo stesso. Qualche allucinazione, qualche momento di confusione, la graduale perdita della memoria: tutti segni che, da una prima incredulità e preoccupazione nei tuoi confronti, imparai ad accettare come segnale di una malattia di cui non potevo parlare con nessuno e che gli altri, senza sapere, etichettavano come demenza senile.
Nel frattempo giungevano, tuttavia, gli esiti degli esami da te fatti, che io ti tenevo nascosti, e giunse faticosamente anche il giorno in cui le dottoresse che li avevano prescritti vollero incontrarci. Io mi feci fare da te la delega perché eri appena stato dimesso e non volevo ascoltassi nulla di ciò che mi sentivo essere un brutto presagio. Mi accompagnò mio marito. Ci venne mostrata qualche slides della tua tac positiva, ci venne detto che avevi un carcinoma inoperabile, al 4 stadio, l’ultimo, gravissimo. Così, come se ci stessero dicendo che fuori era Autunno e avrebbe fatto presto freddo.
Una doccia gelata ibernò ogni mio più piccolo pensiero logico. Parlavano davvero di te? Come si permettevano di farlo in quel modo? Era questo che volevano dirti in faccia, insistendo fino all’ultimo che tu potessi venire per ascoltare? Come si può dire una cosa simile ad un uomo anziano che ha tanto sofferto solo perché è cosciente? Ma cosa significa quarto stadio, inoperabile, come poteva essere vero se tu eri perfettamente in salute e in grado di fare ogni cosa: guidare, cucinare, amministrare le tue cose, suonare, insegnare musica ed essere il nostro pilastro da sempre? Scoppiai a piangere come una fontana, per la rabbia di sentirmi in una trappola, in un inganno meschino, un brutto scherzo. E se avessero confuso le carte? Ma le cure? Era un’ombra, avevano detto, una piccola ombra. Come poteva essere lì da tempo quell’ombra senza che io me ne fossi mai accorta? Tanti rimorsi mi attraversarono il cuore come coltelli affilati, in particolar modo la sensazione di colpevolezza per non essermi mai accorta di nulla, pur dividendo con te gran parte di tutte le mie frenetiche ma felici giornate. Ora, quell’ombra si insinuava tra noi, ed era molto, molto più minacciosa di quello che fino a quel giorno avevo creduto.
Ovviamente iniziai ad indagare, a studiare, a mettere in discussione e a prenotare colloqui e consulenze, sperando di sentirmi dire qualcosa di differente. La parola “tumore”, che nella mia vita avevo quasi timore anche solo di concepire nella mente e pronunciare, diveniva inspiegabilmente familiare e mi risucchiava in un vortice che mi terrorrizzava. Mi ritrovavo dall’altra parte, lì gettata violentemente e improvvisamente da uno tsunami che non avevo minimante avvertito. Per un’altra volta nella mia vita, ma questa con ancora più consapevolezza vista la mia età adulta, sentivo che le parole chemioterapia, radioterapia, metastasi, cure palliative….avrebbero dovuto riguardarci, anche se non riuscivo ad accettarlo. Tu stavi bene, come potevano parlarmi così, come osavano?
Ho pianto tanto, nonno. Ho pianto e piango ancora, mentre scrivo questa lettera come un fiume in piena che ho necessità urgente di far sgorgare dal mio cuore.
Ho cercato e trovato conforto nella preghiera e sono stata ascoltata. Ho chiesto di poterti avere con me in salute ancora, da quell’Autunno, per festeggiare con te il Natale, il mio compleanno e quello di mio figlio, la sua S. Comunione, la fine delle scuole elementari permia figlia e il suo compleanno, e ogni momento che ci è stato ancora possibile.
Ad ogni medico che ho incontrato sul percorso, ho espresso la mia indiscussa volontà di non aggredirti con le cure. “Quanto ne potremmo guadagnare?” “Qualche mese” “Ma lei cosa farebbe se fosse suo padre?” “Se dovessi fare solo il medico le direi che dovremmo affrontare le cure, ma siccome un medico deve essere anche un uomo e guardare alla totalità della persona e non solo alla malattia penso che, in questo caso, davanti a un uomo di quasi 90 anni con comorbidità, la qualità della vita diventi più importante della quantità… e allora sì, se fosse mio padre, lo lascerei in pace.” - mi è stato risposto dai sanitari più empatici che ho incontrato.
Non ho dormito per mesi. La tenaglia del dubbio mi stringeva in una morsa che non mi dava tregua. Poi, dopo tantissimi confronti, tantissimi pianti, tantissime preghiere… ho capito quale era la strada da percorrere: non metterti paura, ansia, non farti soffrire ulteriormente per qualcosa che non ti avrebbe riservato un finale differente. E’ stato crudele tenermi questo orribile segreto dentro e decidere per te…Mi sono chiesta tante volte se avresti preferito saperlo, avere la possibilità di lottare, io sicuramente mi sarei sentita più leggera, anche se avevo il terrore della sofferenza che avremmo dovuto affrontare….Ma sapendo che era una lotta impari, che avremmo comunque perso, ho voluto risparmiarti il terrore che io stavo provando e il dolore che la consapevolezza di lasciare me, mio fratello, la nonna e i bambini ti avrebbe procurato.
Tu, che hai sempre pensato a tutto per noi. Tu, che non mi hai fatto mancare nulla. Tu, che mi hai dato sempre più di quanto avremmo potuto permetterci. Tu che mi hai sempre donato soprattutto affetti e valori, ma anche ciò che di materiale ti chiedevo. Tu che non mi hai mai rinfacciato nulla. Tu che non mi hai mai fatto pesare nulla. Tu che in 86 anni non mi hai mai detto una volta: non sto bene, aiutami. Tu che non mi hai mai chiesto niente, nemmeno di andarti a comprare una cassa d’acqua al supermercato. Tu che ti sei sempre arrangiato, che non mi hai mai mostrato un segno di cedimento, nemmeno quando hai perso una figlia e ti sei trovato a crescere un’adolescente furiosa e delusa dalla vita e da tutto. Tu che mi hai sempre dato fiducia. Tu che mi hai sempre dato una possibilità. Tu che mi hai sempre concesso la libertà. Tu che mi hai sempre perdonato. Tu che non hai mai alzato la voce con me, ma che sei stato un esempio impeccabile di autorevolezza con il tuo tono pacato e garbato. Tu che non hai mai usato una parola cattiva, ma che sei stato l’esempio più grande di gentilezza e nobiltà che io abbia mai avuto. Tu che sei sempre stato corretto e che mi hai insegnato quanto sia importante l’onestà, soprattutto intellettuale. Tu che ci sei sempre stato. Tu che non mi hai mai dato un consiglio se non ti era richiesto. Tu che ti si sempre fatto da parte, senza farlo apparire come un sacrificio. Tu che mi hai lasciato spiccare il volo e hai sostenuto tutto il peso sulle tue spalle curve. Tu, che sei stato il mio primo confidente, al quale ho detto tutto, senza mai essere giudicata. Come potevo non dirti questo? Come potevo tradirti in qualche modo, mentirti, non metterti al corrente di una cosa così tanto importante per la tua vita?
Perdonami nonno, se ho sbagliato. E’ stato il mio più grande atto d’amore per te. Tenermi questo macigno dentro, lasciare che mi affondasse ogni giorno di più insieme a te, essere divorata dalla paura e dai rimorsi, ma anche rincuorata del fatto che le mie preghiere erano state ascoltate.
Per un anno hai continuato ad essere una persona apparentemente in salute, e nessuno poteva credere alle mie fatiche e al mio dolore pungente. Solo ultimamente si poteva percepire che qualcosa ti stava divorando lentamente: eri magrissimo, stanco, a volte non lucido.
Non è stato facile limitare la tua libertà in questi mesi: i giri dal dottore, in farmacia, fino alla spesa, togliendoti la macchina, le scale…Mi sono fatta in 4, insieme a mio fratello, per non farvi mancare nulla: una casa pulita, i tuoi piatti preferiti a pranzo e cena, le medicine, il riposo che meritate ma soprattutto la nostra presenza e il nostro affetto. Quando non ero con te, stavo pensando a te, pregando per te, piangendo per te. E per me. Per noi due. Che siamo un’entità sola, quasi, come una figlia e un padre, una figlia e una madre, perché questo sei stato per me, perché tu sei parte di lei, e io non ci sarei senza te, senza la tua sofferenza, non sarei quella che sono se mi avesse cresciuto qualcun altro. In questi ultimi mesi, prigioniero nella tua casa, ti ho trovato qualche volta insofferente, forse anche arrabbiato con me, nascosto in un angolo a piangere.
Ho pensato ininterrottamente a quanto questa malattia sia subdola e malvagia: la scopri che sei già fuori tempo massimo, ti trovi faccia a faccia con la consapevolezza che la clessidra è stata già girata e puoi solo guardare i granelli scendere e decidere cosa fare in questo tempo. La malattia cambia le priorità del cuore, sovverte i ritmi della mente, fa chiaramente comprendere che nulla è controllabile da noi se non la possibilità di godere di ogni cosa, di dimostrare l'amore a chi vogliamo e di essere grati per ciò che abbiamo ricevuto. Ma ci fa anche impazzire. Io lo so che avevi voglia di vivere e mi sembrava così ingiusto che questo male ti dovesse portare via da me. Cercando di allontanare questi pensieri, ti ho abbracciato fino a stritolarti, ti ho coccolato e seguito come avrebbe fatto una madre con un figlio, e a volte ho dovuto recitare la parte di quella che prende delle decisioni a te sgradite. Mi sono chiesta sempre, 1000 volte e più, se stavo facendo bene, se stavo facendo il “meglio”. Spesso non sono riuscita a dormire poiché questi pensieri mi attanagliavano, ma di giorno cercavo sempre di farmi tornare il sorriso, di farti capire con i miei baci e i miei abbracci quanto sei importante per me e per i bambini. Non sarà mai abbastanza per ripagarti, ma io ho scelto di esserci, molto prima che tu ti ammalassi. Ringrazio Dio per questo tempo insieme, tutto, quello prima della malattia, così spensierato e dolce, soprattutto da quando sei diventato bisnonno…e quello che abbiamo avuto adesso, per dirci tutto, per ringraziarci di tutto, per quando mi dici che, anche da lontano, ci sarai sempre per me. Tra noi non ci sono rimpianti, abbiamo capito troppo presto cosa significa perdere chi amiamo e a dare importanza alla vita.
Sei la persona migliore che io abbia mai conosciuto, nonno, quella di cui mi fidavo di più al mondo. Sei stato il mio biglietto da visita nel mondo, per fare sempre bella figura. Non ho mai voluto deluderti, ce l’ho sempre mesa tutta per non recarti dispiaceri, preoccupazioni, o per non farti vergognare mai di me. “Sono la nipote di K.” ho sempre detto con fierezza, per farmi aprire le porte. E così le ho sempre trovate spalancate.
Sarà dura stare senza te. Sarà buio pesto camminare per un sentiero in cui dietro di me non resta quasi più nulla. Guarderò in avanti, dove ho ancora tanto. E ti troverò, lo so. Anche se non sarò più figlia. O forse no, lo sarò sempre. Perché tu sei rimasto un nonno, una madre, un padre, per me. Tu rimarrai per sempre tutto quello che mi hai dato anche se forse non l’ho meritato. Spero che sarai un po' fiero di me e che, soprattutto, mi perdonerai per quello che non sono riuscita a fare, a gestire al meglio, a prevenire, a combattere. Perdonami, se puoi, per averti portato in ospedale quando tutto stava diventando più forte di me. Per averti portato in mezzo ad estranei per cui sei stato, forse, solo un malato qualunque, un vecchio qualunque, un numero di stanza, un paziente “difficile”. Questa scelta quasi obbligata mi continua a lacerare, a sgretolare il cuore, ad annodarmi la gola. Lo farà per lungo tempo ancora. Non mi darà pace. Perché tu non sei uno qualunque, nessuno lo è, ma tu sei stato veramente speciale per chiunque abbia avuto la fortuna e l’onore di conoscerti.
Ti voglio bene, nonno. Cercherò di lasciarti andare, adesso, perché tu possa fare buon viaggio, libero da tutte le catene…per raggiungere la tua indimenticata figlia, mia mamma, lasciandoti andare alla luce senza soffrire e combattere per me. Io me la caverò. Mi hai dato tutto quel che potevi e avevi, di più non si può. Grazie!!!!!!!!!! Infinitamente grazie!!!!!!! E arrivederci, nonno, perché tutto questo amore non può andare sprecato. E non lo sarà, prometto. Sarò forte.
Ogni volta che sentirò un clarino suonare o un pianoforte intonare Per Elisa penserò a te, stanne certo. Sarà la tua voce che mi guida. Grazie per essere stato musica nella mia vita e in quella dei miei bambini, per avermi insegnato che la musica è un’ancora di salvezza dove mi rifugerò ancora e sempre per cercarti e ritrovarti,
anima purissima, ultimo dei gentiluomini, persona straordinaria.
Dio ti avrà in gloria ed io mai ti dimenticherò, foss’anche per un giorno. Non soffrire più. Vola libero verso la Luce che meriti.
(Possa questa lettera essere una carezza per il tuo cuore e
per quello di tutti coloro che stanno combattendo)